Ha sessantasei anni, vive con un fegato di 102

 

L’équipe del centro trapianti di fegato delle Molinette

Uno studio scientifico degli epato-chirurghi delle Molinette di Torino pubblicato sulla rivista Transplantation dimostra per la prima volta al mondo che l’organo trapiantato ha una vita lunghissima. Il più vecchio fu prelevato vent’anni fa da un paziente di 82 anni. E chi lo ha ricevuto è in ottima forma.

 

di ALBERTO CUSTODERO

17 luglio 2017

 

ROMA – Mario ha sessantasei anni, ma il suo fegato ne ha 102: il donatore ne aveva 82 quando, 20 anni fa, avvenne il trapianto. A oggi è il più anziano organo al mondo sommando le vite del donatore e del ricevente. Uno studio del centro trapianti epatici delle Molinette pubblicato sulla rivista Transplantation (intitolato “Fegati centenari: risultati nel lungo periodo di trapianti molto vecchi”) svela alla comunità scientifica internazionale, per la prima volta, che l’età di un organo in quanto tale (il fegato) può essere ultracentenaria.

Organo magico, mito di Prometeo. Che fosse un organo magico per la sua capacità di rigenerarsi era già noto nell’antica Grecia, come svelato dal mito di Prometeo. Oggi, però, i medici del centro trapianti delle Molinette hanno dimostrato che questa proprietà non è una leggenda. Il risultato è stato divulgato dai chirurghi torinesi perché proprio loro sono stati i primi pionieri, vent’anni fa, quando l’età massima dei donatori era fissata dai protocolli in 50-60 anni (limite ancora valido oggi per gli altri organi), ad azzardare prelievi da ultra ottantenni. Allora il mondo scientifico considerava quella scelta quasi una follia. Ma oggi, grazie all’eccezionale tasso di sopravvivenza di chi ha ricevuto quei fegati ‘ottuagenari’, è diventata prassi dappertutto, al punto che di recente è stato prelevato l’organo addirittura a una 94enne. E non è escluso che in futuro possa esserci un donatore centenario.

                    

Il professor Mauro Salizzoni

A Torino pionieri del prelievo di organi anziani. La scelta pionieristica dell’équipe torinese, alla fine degli anni Novanta, fu dettata, per così dire, dalla necessità di trovare organi a tutti i costi. Da tutta Italia, soprattutto dal Sud, bussavano alle Molinette malati (in particolare di epatite C e B) che chiedevano di essere iscritti in lista di attesa per ricevere un nuovo organo. Ma le donazioni scarseggiavano. E i malati rischiavano di morire prima ancora di entrare in sala operatoria. Mauro Salizzoni – va detto – non era un chirurgo qualsiasi, negli anni Ottanta, quando ancora in pochi ‘osavano’ toccare il fegato con il bisturi, si recò ad Hanoi per imparare le tecniche – come la resezione epatica fatta con le sole dita – che i vietnamiti avevano affinato per curare i fegati lesionati dall’Agente Arancio, il defoliante a base di diossina utilizzato su larga scala dagli Usa durante la lunga guerra.

E così Salizzoni, tornato in Italia e diventato nel frattempo direttore del primo centro d’Italia per numero di trapianti (una media di 150 all’anno, il traguardo complessivo di tremila in 27 anni raggiunto ieri) di fronte all’esigenza di reperire donatori, decise di ‘violare’ i protocolli e di prelevare organi anche agli anziani che arrivavano al pronto soccorso delle Molinette colpiti da emorragia cerebrale. S’era reso conto che il loro fegato si trovava ancora in ottime condizioni nonostante l’età avanzata. Conoscendo poi le proprietà autorigenerative dell’organo laboratorio chimico del corpo umano, decise di tentare una sperimentazione che in quegli anni rappresentava una autentica rivoluzione nel mondo dei trapianti. E la scelta si rivelò un autentico successo ora emulata in tutto il mondo.

Lo studio scientifico. Il centro delle Molinette, si legge nello studio, ha prelevato 26 fegati di donatori ottuagenari trapiantati tra il 1998 e il 2006 seguiti da altri 120 trapianti da allora in avanti. Dei primi 26, la sopravvivenza a 10 anni è stata di oltre il 70 per cento. Attualmente, 15 pazienti sono vivi grazie ad un fegato che ha oggi più di 90 anni con due tra questi organi addirittura centenari. I fegati centenari avevano rispettivamente 84 e 86 anni al tempo del trapianto e i loro riceventi hanno oggi rispettivamente 66 e 76 anni. “Fin da quando esiste la chirurgia dei trapianti – spiega il chirurgo delle Molinette Renato Romagnoli, uno degli autori dello studio insieme a Salizzoni, Antonio Amoroso e Francesco Lupo  – abbiamo sempre avuto un dubbio: quanto può sopravvivere una parte del corpo umano dopo la sua morte?”.

Il Fedone di Platone, e i dialoghi di Socrate.  Non a caso, l’incipit dello studio dei chirurghi torinesi è una citazione di un passo del Fedone di Platone in cui Socrate parla a Cebete di morte del corpo e dello spirito. L’anima è immortale, sostiene il filosofo greco, mentre il corpo è corruttibile, anche se sopravvive per “tempo indefinito” se trasformato in mummia come fanno gli egizi. E sue parti, ossa e tendini, dopo la morte “restano, per così dire, immortali”. Della sopravvivenza degli organi alla fine della vita della persona s’è tornato a parlare ai tempi nostri da pochi decenni, da quando appunto si è sviluppata la trapiantologia. Lo studio torinese, dopo tante suggestioni mitologiche e ipotesi, rappresenta ora la prima certezza scientifica.

Romagnoli: “Nessuno ha mai saputo per quanto tempo il fegato possa sopravvivere alla morte del suo corpo naturale, ospite in un altro. Oggi siamo in grado di dimostrare per la prima volta al mondo che, sommando le età delle sue due vite (quella del donatore e quella del ricevente), è in grado di durare almeno 102 anni perché abbiamo il caso di un fegato donato da una persona di 82 anni che è sopravvissuto per 20 nel corpo del ricevente. Poiché questi è ancora vivo, il limite è destinato a spostarsi ancora in avanti”. Ma di quanto? “Al momento ancora nessuno lo sa – conclude Romagnoli – Quel che è certo è che il fegato, organo magico, ci svelerà ancora ulteriori sorprese”.

 

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